ARTISTI
Alex Sebastianutto – saxofono
Morris Sebastianutto – tromba
COMPOSITORI
Lamberto Lugli, Leonardo Schiavo, Marco Molteni, Massimiliano Messieri, Renato Miani, Stefano Ianne
Registrato, missato e masterizzato da
Francesco Blasig
East Land Recording Studio, Cormons (GO)
Foto di
Glauco Comoretto
Art Cover Design
Stefano Sanna
Etichetta discografica
Nella storia delle espressioni artistiche dell’uomo relate a grandi temi sociali non di rado si verificano delle coincidenze significative. Alle volte non sembrano coincidenze ma una sorta di “richiami” dove la creatività diviene soggetto di maggior suggestione rispetto a, ad esempio, un ragionato saggio. Sono trascorsi sessant’anni esatti da quando, con coraggio e determinazione il batterista e compositore di colore Max Roach pubblicò la sua “We Insist! Freedom now Suite” caratterizzata da una copertina dal tono decisamente provocatorio: una foto che ritrae tre afroamericani seduti al banco di un bar che guardano verso l’obiettivo con sguardi poco concilianti mentre un perplesso barman bianco strofina pulendo un oggetto osservando i tre giovani un po’ preoccupato. Di simile coraggio artistico – viste le soluzioni compositive e interpretative adottate – è questa ricca serie di brani uniti dal filo tematico comune della celebrazione della libertà e di alcuni suoi protagonisti e – è il caso di dirlo – martiri. Prima di fornire qualche cenno di lettura delle musiche di “Freedom” a firma di Alex e Morris Sebastianutto vale la pena di ricordare che i soggetti ispiratori delle opere dei compositori Miani, Messieri, Molteni, Ianne, Lugli, Schiavo sono Malcolm X (due tributi), Martin Luther King, Gandhi, le tre sorelle Mirabal e sono tutti morti di morte violenta – in un caso autoprocurata per protesta (Palach) – proprio per la loro lotta indomita e incompromessa a favore della e delle libertà. Evidentemente la tematica, la percezione delle personalità cui i compositori si ispirano, la sedimentazione nel tempo del problema razziale mai sopito e riemerso mediaticamente in tempi recenti hanno fortemente stimolato i musicisti che siglano questa opera. Un’opera sonora che, pure nella vibrante diversità di stili compositivi, ha una sua complessiva ragione d’essere e forza espressiva grazie al lavoro dei due interpreti che hanno saputo non solo superare i limiti connotativi dello strumento – nello specifico sax contralto e tromba – ma trasformarli in due entità sonore trasfiguranti, quasi processo alchemico delle musiche, complici certo le qualità creative degli autori che dedicano le composizioni ai due musicisti. La maturazione artistica dei due interpreti trova in questo percorso un compimento dinamico, quasi un punto di non ritorno dove il percorso della musica cosiddetta “classica” diviene un laboratorio di ampio ascolto e intensa espressione. Infatti i Sebastianutto non sono jazzisti e ciò rende ancora più libera, ampia, coltivata la loro capacità di interagire con mondi stilistici assai diversi. Infatti il Jazz, nato come musica di intrattenimento e di libertà implicita per la comunità afroamericana degli Stati Uniti – imitata e spesso “scippata” dai bianchi – è divenuta musica d’arte e di straordinaria libertà esplicita soprattutto con le avanguardie degli anni ’50 e ’60. Poi, però, con la scomparsa dei giganti – in vita solo il novantenne Sonny Rollins – e la trasformazione globale in corso, spesso diventato accademia, ha perso mordente ed efferatezza anche ideale. L’opera “Freedom” sembra superare molte barriere, proprio come fa la libertà, dando ad ogni brano una identità e una riconoscibilità anche con citazioni mirabili. Come non riandare alla frenesia iperstrutturata di Frank Zappa nel galvanizzante Just X di Marco Molteni (terza traccia) dedicato a Malcom X che nasconde anche echi stravinskiani (amatissimi da Zappa assieme alle multimetrie di Varese). La perizia esecutiva di sax e tromba creano reticoli impazziti eppure precisi con suoni elettronici attentamente selezionati, ammiccando ad un Industrial Sound che sa di consapevolezza modernista, postfuturista, cavalcandola, senza rimanerne soggiogata. Una tempesta sonora che a metà brano vira in una specie di Slow motion ipoteticamente visuale con suoni estesi per poi ripartire verso una balbettante ripresa di momenti più concitati. Molto metallo, echi di archi tesi e acciai stridenti dove le voci degli strumenti coagulano il tutto, quasi fantasmi benevoli a spasso fra la durezza dei suoni del mondo urbano. Quel mondo aspro ed ingiusto contro cui proprio Malcolm X protesta nel suo celebre discorso “The ballot or the bullet” tenuto in una infuocata Detroit il 12 aprile del 1964. Discorso un cui frammento registrato diventa l’incipit della composizione di apertura del CD Trapped firmata da Renato Miani. Le evoluzioni del sassofono di Alex Sebastianutto, imitazione sonora di delirio affabulatorio, srotolano un vero e proprio “speech” che sollecita interventi di basso elettrico (con tecnica “slap” tipica del funk nero) e organo simil-hammond nel segno di una pertinenza timbrico-stilistica di grande capacità evocativa. Una pulsazione ritmica incessante, quasi “cassa in 4” di consumo batteristico sostiene intere zone della composizione che si apre, però, anche a momenti lirici, con echi di cori Gospel fantasmatici e destrutturati. Appare persino un accenno di tecnica “Scratch” simulata da colpi d’aria sull’ancia: tutti “arnesi” di grande gestione della multiforme espressione del sax che segnala anche momenti filojazzistici di carattere free.
Anche la seconda traccia, A deep belief, composta da Massimiliano Messieri, si ispira ad un discorso storico fortemente evocativo: si tratta di Martin Luther King Jr. che pone domande con il suo “What is your life’s blueprint?” (“Qual è il progetto della tua vita?“), che infiammò e commosse gli animi il 26 ottobre 1997 rivolto agli studenti della Barratt Junior High School di Philadelphia. Una voce femminile innerva l’inizio del brano creando un’atmosfera quasi mistica, poi potenziata e trasfigurata nelle voci di tromba e sax che sembrano celebrare mestamente un discanto antico e profondamente spirituale. Diviene un misurato contrasto drammatico la permanenza in sottofondo di suoni elettronici, insidiosi ma non invadenti dove, ogni tanto, frammenti delle parole del figlio di Martin Luther King, si affacciano come vaganti residui mnestici. Un finale setoso, bivocale ed etereo, canta la sospesa malinconia del Blues people.
Suoni apocalittici, in assolvenza rapida, proprio come un incendio, fanno da bruciante introduzione al tormentato Jan’s Shriek di Lamberto Lugli. Jan Palach si immolò per la libertà a Praga il 19 gennaio 1969, dandosi fuoco in pubblico per protestare contro il regime filosovietico cecoslovacco. Jan’s Shriek è un complesso viaggio nelle tecniche e possibilità espressive innumerevoli del sax in dialogo con un tessuto sonoro ricchissimo, cambi di metro e di tempo, di situazioni timbriche dove la multiformità del tutto diventa un labirinto di idee. Un labirinto nel quale, però, il filo di Arianna, è l’evoluzione tematico-improvvisativa del sax che percorre “stanze” e corridoi come immaginaria Steady cam. Qui l’interprete arriva a proporre anche doppi suoni, armonici sgranati facendo del sax un Prometeo delle sonorità, portandolo oltre le soglie timbriche abituali, per quanto belle. Tutto ciò magnificando la potente e inesausta creatività del compositore Lugli che non dimentica fantasmi sonori di marce militari, pulsazioni elettroniche impietose e tensione drammatica costante.
Sembra assai azzeccato e proprio anche il titolo della quinta traccia, Samādhi Gandhi di Stefano Ianne. Samādhi in sanscrito definisce il fondersi di colui che pratica la meditazione con l’oggetto stesso della meditazione. In termini più semplici – e la musica ci aiuta – qualsiasi musicista o afroamericano o asiatico o incline ad una forte trascendenza affermerà che quando suona uno strumento cerca di fondersi con quello strumento, se non di diventarlo lui stesso. L’iterazione della formula per suoni elettronici armonico-melodica dell’inizio indica subito il progetto vagamente ipnotico, caro al minimalismo più esperito, ma ben presto la tromba e il sax frammentano microcellule tematiche o semplici contrattempi “per nota sola” dando al tutto il senso di circolarità (meglio spiralità) che è carattere profondo del pensiero e sentire induista. I suoni, morbidi e pastosi, volutamente inglobano altri simili e permettono agli strumenti solisti parsimoniose “emersioni”. Anche qui voci registrate di discorsi di protagonisti aumentano il carattere evocativo del brano fino ad uno sviluppo suggestivamente…labirintico e ossessivo con un tributo alla modernità anni ’70 dove echeggia lo spirito del migliore Miles Davis dell’ultimo periodo elettricoacustico ed elettronico.
Non potevano che essere misteriosi e poetici gli ultimi tre brani composti da Leonardo Schiavo e ispirati dalle tre sorelle Mirabal trucidate dai sicari della dittatura di Trujillo nella Repubblica Dominicana il 25 novembre del 1960. Tre miniature pregevolissime dove le tre Mariposas – così erano soprannominate all’interno del “Movimento 14 giugno” in lotta per la libertà all’epoca – sfarfallegiano interpretate da un flauto fantasmatico in dialogo con suoni alle volte lirici, alle volte taglienti, alle volte stranianti, di sax e tromba. Una metafora che racconta la grazia e l’innocenza, ma anche la determinazione e la forza giovanile di tre giovani donne martiri per la libertà. La fine di questo viaggio sonoro avviene nel segno di un canto ampio, lirico e ampio, dove il riverbero pare essere un vero e proprio respiro e l’intrecciarsi di semplici melodie sognanti aprono i suoni alla luce.